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Nel pomeriggio del giorno di Carnevale, intorno alle 17. Si sono manifestate forti esplosioni e fontane di lava altissime che sono fuoriuscite dal vulcano. Le immagini spettacolari dell'eruzione sulla neve.

eruzione etna

etna eruzione

etna erupting

eruzione dell'Etna

etna in eruzione

eruzione dell'etna e la città di Riposto

panorama di riposto e Etna  

È un piatto tipico siciliano e come tale è stato ufficialmente riconosciuto e inserito nella lista dei  (P.A.T) del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali (Mipaaf).

Il nome del piatto deriva dai beccafichi volatili della famiglia dei Silvidi. In passato i nobili siciliani li consumavano, dopo averli cacciati, farciti delle loro stesse viscere e interiora. Il piatto era gustoso ma inavvicinabile al popolo in quanto bene di lusso. I popolani siciliani ripiegarono quindi sulle materie prime che potevano permettersi ovvero le sarde. Per imitare il ripieno d'interiora si pensò di utilizzare la mollica di pane, i pinoli e poco altro. 

 

La preparazione:

Pulire le sarde, eliminando la testa, le lische e le interiora, quindi lavarle e farle scolare. Apritele  a libro lasciando attaccata la parte centrale delle sardine.

In una ciotola mettete il pangrattato, il pecorino e il formaggio pecorico grattuggiato, aggiungete una manciata di prezzemolo tritato, un uovo, l’aglio tritato finemente, l’uvetta ammollata e strizzata, i pinoli, il pepe e la scorza grattugiata del limone. Infine impastate il tutto.

Con l’impasto della farcitura formate adesso delle polpette un po’ ovali, accoppiate due sardine utilizzando le polpette come ripieno; premete bene affinchè aderiscano tra di loro, infine passatele nell’uovo sbattuto e nel pangrattato.

Friggete in olio caldo le sarde a beccafico facendole dorare da entrambi i lati, man mano adagiatele su carta assorbente per eliminare l’olio in eccesso.

 

wikipedia

Ingredienti

  • nnannata  (pesciolini minutissimi di varie specie pescati con reti molto fitte e soggetti a regolamentazione di pesca
  • uova nnannata
  • prezzemolo
  • pecorino (secondo proprio gusto)
  • olio di oliva
  • farina (facoltativo)

Per preparare le deliziose frittelle di neonata,

occorre innanzitutto pulire il novellame di pesce

e mescolarlo delicatamente in un piatto con il prezzemolo tritato,il formaggio grattugiato.
(sale e pepe secondo gusti)

 

Aggiungere l’impasto così ottenuto alle uova battute e formare delle polpette schiacciate che andranno fritte nell’olio bollente.

prezzemolo

Dopo la frittura, asciugare con la carta assorbente l’olio in eccesso e servire le frittelle di neonata in tavola .

 

 

 

 

 

 fritelle neonata

 

 

 

 

Encelado,

il maggiore dei giganti, desiderava prendere il posto di Giove e cosi poter dominare. Per far questo doveva raggiungere la Dimora degli dei. Pensò quindi di costruire una scala mettendo una sopra l'altra le montagne del mondo e si rivolse ai suoi fratelli per farsi aiutare. Encelado, era molto temuto dai giganti e nessuno voleva contrastarlo. Infatti quando si arrabbiava sputava fuoco e scintille tanto da incendiare i suoi stessi capelli, che però prontamente gli ricrescevano. Insomma oltre che un aspetto orribile aveva anche un pessimo carattere. I giovani fratelli loro malgrado presero il Monte Bianco, il Monte Pindo dalla vicina Grecia, le grandi montagne dell'Asia e le accatastarono una sull'altra. Essendo la meta ancora lontana. recuperarono anche le alte montagne africane. Erano quasi in vista della meta, quando Giove furibondo per l'arroganza dimostrata, scagliò sui giganti un fulmine facendoli precipitare giù. I giganti feriti e doloranti si contorcevano a terra, Giove non ancora soddisfatto colpì con un altro fulmine la catasta di montagne, che si frantumò in tanti pezzi ricoprendo i corpi dei ribelli. Encelado rimase sepolto sotto diverse montagne. La testa resto sepolta sotto il monte Etna. Per l'incapacità di potersi liberare dal peso che lo tratteneva sepolto, sfogo la sua rabbia eruttando fiamme dalla bocca che salirono fino in vetta della montagna uscendo con un rombo violentissimo. La lava fusa dal respiro del gigante scorreva lungo i pendii dell'Etna distruggendo ogni cosa che incontrava e facendo fuggire gli abitanti in preda al panico. Cosi la leggenda racconta la nascita del vulcano Etna. Il gigante ogni tanto si risveglia e scatena la sua forza. E cosi che l'Etna sembra risvegliarsi dal suo pacifico torpore riempendo il cielo di faville e rivestendo le sue pendici con nuovi fiumi di lava.

diverse fonti

 

Secondo un'altra versione:tifeo

Tifeo aveva membra smisurate, era metà uomo e metà bestia. Aveva la testa d'asino, le ali da pipistrello ed era più alto della più alta montagna del mondo. Con le mani riusciva ad acchiappare le stelle e con le gambe riusciva ad attraversare il mare Egeo in 4 passi dalla penisola Ebea fino alle spiagge di Troia. Sulle spalle aveva 100 serpenti che invece di sibilare, a volte latravano come cani, a volte ruggivano come leoni. Ognuna delle gambe era formata da due draghi attorcigliati, orribili a vedersi che facevano capolino con le teste, da dietro le anche. La sua barba e i suoi capelli ondeggiavano al vento e dagli occhi fuoriuscivano lingue di fuoco e lui sputava di continuo massi incandescenti. »

Luciano De Crescenzo, Zeus - Le Gesta degli Dei e degli Eroi

 

Dalla mitologia greca: Tifone, anche detto Tifeo o Tisifeo, il cui nome vuole dire "fumo stupefacente".

Gea, delusa per la sconfitta dei suoi figli, i Titani e i Giganti, per opera di Zeus, si lamentò di lui presso la moglie del re degli dèi: Era. La regina degli dèi credette alle parole della dea e, decisa a vendicarsi contro il suo consorte, si rivolse a Crono, che Zeus aveva precedentemente spodestato, e lo pregò di aiutarla. Deciso a vendicarsi del figlio-rivale, il re dei titani e del tempo si masturbò su due uova, che affidò alla dea, aggiungendo di sotterrarle in modo che, al tempo prestabilito, si aprissero per dare alla luce un demone capace di spodestare lo stesso Zeus. Era ascoltò i suoi suggerimenti e, dopo un certo periodo, da quelle uova nacque il mostro Tifone. Una volta cresciuto, Tifone salì fino al Monte Olimpo e incusse una tale paura agli dèi che questi si trasformarono in animali e si rifugiarono in Egitto (dove avrebbero dato vita al culto locale degli dèi animali).

Così si trasformarono gli dèi:

  • Zeus si fece ariete,
  • Afrodite pesce,
  • Apollo corvo,
  • Dioniso capra,
  • Era una vacca bianca,
  • Artemide un gatto,
  • Ares un cinghiale,
  • Ermes un ibis,
  • Ade uno sciacallo,
  • Pan trasformò solo la sua parte inferiore in un pesce e si nascose in un fiume.

Zeus fu aspramente redarguito dalla figlia Atena, che gli ricordò come da lui dipendesse il destino dell'umanità. Le due divinità assunsero così anch'esse proporzioni gigantesche ed affrontarono il mostro sul monte Casio, ai confini dell'Egitto. Nel primo, durissimo scontro Atena fu messa fuori combattimento in pochi istanti, ma subito dopo Zeus riuscì a respingere Tifone con un potente fulmine e quindi ad abbatterlo a colpi di falce. Quando però il re degli dèi si avvicinò per scagliare il colpo decisivo, Tifone gli strappò l'arma dalle mani e lo ferì gravemente, imprigionandolo poi in una caverna della Cilicia. Ermes e Pan accorsero allora a salvare Zeus. Pan spaventò il mostro con le sue urla, mentre Ermes liberò Zeus dalla prigione e lo curò. Il dio raggiunse l'Olimpo, prese la guida del suo carro alato e cominciò ad inseguire il gigante, colto di sorpresa dalla sua reazione. Una prima violenta battaglia si ebbe sul Monte Nisa e una seconda in Tracia, dove Tifone, ormai privo di controllo, cercò di fermare Zeus lanciandogli addosso intere montagne, ma ogni volta il Dio lo colpì implacabile con le folgori. Alla fine Tifone fuggì verso occidente e giunto in Sicilia tentò una disperata difesa sollevando l'intera isola per gettarla contro il Re dell'Olimpo. A questo punto, Zeus scagliò contro il gigante un ultimo, potentissimo fulmine che lo colpì in pieno. Tifone perse la presa e rimase schiacciato sotto l'isola che gli crollò addosso. La testa resto sepolta sotto il monte Etna e per questo fu motivo di eruzioni.

wikipedia

 eruzione etna

L'origano (Origanum vulgare) non è soltanto una semplice erba aromatica da utilizzare in cucina, ma un vero e proprio medicinale naturale. La pianta arriva ad una altezza massima di 70–80 cm. E' una pianta erbacea, a ciclo biologico perenne, con gemme svernanti al livello del suolo e protette dalla lettiera. Sono presenti anche altre forme biologiche come camefita suffruticosa, ossia piante perenni e legnose alla base (subarbustive), con gemme svernanti poste ad un'altezza dal suolo tra i 2 ed i 30 cm (le porzioni erbacee seccano annualmente e rimangono in vita soltanto le parti legnose). Tutta la pianta è aromatica.

Principali caratteristiche

  Più il terreno è povero e asciutto più l'aroma sarà intenso. Importante è l'eliminazione delle erbe infestanti mediante sarchiature e scerbature manuali.Si raccolgono le foglioline e gli apici fioriti durante tutta la stagione vegetativa tagliando le piantine a 5-10 cm dal suolo . Bisogna sempre tener presente, comunque, che il miglior periodo per lo sfalcio è la piena fioritura ossia quel periodo in cui la pianta ha una più intensa aroma balsamica. Per la conservazione gli steli tagliati si legano in fasci lenti e si lasciano appesi in luoghi ombreggiati, ventilati e asciutti per almeno 15-20 giorni. L'origano dopo l'essiccazione può essere polverizzato e conservato in boccette di vetro. In cucina è l’aromatizzante per eccellenza delle pietanze ed è utile anche per la preparazione di bevande. Ideale per condire sughi di pomodoro, per la pizza, carni arrostite. Ottimo pure per profumare l'aceto.

 

Giorno 24 Dicembre 2018 un pò prima di mezzogiorno c'è stata un'intensa attività stromboliana da parte dell'Etna. Ha interessato diverse bocche sommitali.eruzione etna

Come è consetuedine sono state scattate miriadi di foto e video.eruzione etna

 

Oggetto sconosciuto appare su una foto

Su una mia foto scattata alle 13:24.57 appare un oggetto di forma cilindrica, con due protuberanze sulla mediana. Ho mandato la foto ad un centro Ufologico che la sta vagliando. Potrebbe essere di tutto: una rifrazione, un uccello, un ufo o qualcosa che studia la natura. Provate a riguardare le vostre foto scattate in quel giorno e soprattutto all'ora indicata: se notate qualcosa di strano, comunicatelo!

Questa è la foto con il particolare ingrandito :

oggetto sconosciuto

 

oggetto sconosciuto particolare due

La storia eruttiva dell’Etna dalla sua formazione ad oggi è stata ricostruita nella nuova carta geologica, alla scala 1:50.000, di recente pubblicata sull’Italian Journal of Geosciences la rivista ufficiale della Società Geologica Italiana e del Servizio Geologico d'Italia. Questo importante lavoro, realizzato da Stefano Branca e Mauro Coltelli dell’Osservatorio Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, Gianluca Groppelli del CNR–IDPA di Milano e da Fabio Lentini dell’Università di Catania, rappresenta lo sviluppo delle conoscenze scientifiche nel campo degli studi geologici e geocronologici degli ultimi 30 anni. In particolare, il lavoro della nuova carta geologica iniziato a partire dal 1990 nell’ambito del progetto di cartografia geologica nazionale (CARG) per la realizzazione del Foglio 625 Acireale (versante orientale dell’Etna) ha permesso di ricostruire le quattro fasi principali dell’evoluzione dell’attività eruttiva nella regione etnea.I dati della nuova carta geologica hanno permesso di ricostruire con estremo dettaglio la storia delle eruzioni sia effusive che esplosive degli ultimi 4.000 anni del vulcano Mongibello evidenziando come in epoca storica si è verificato il più grosso evento eruttivo di questo periodo avvenuto nel 122 a.C. quando un’eruzione esplosiva di magnitudo pliniana causò la ricaduta di uno spesso deposito piroclastico nel versante orientale dell’Etna con gravi danni per le aree coltivate e l’antica città di Catania che fu esentata dal pagare le tasse al Senato Romano per i successivi dieci anni. Nuove datazioni hanno permesso di definire l’età di tutte le colate laviche di epoca storica evidenziando che negli ultimi 2.000 anni solamente tre colate hanno raggiunto la costa Ionica durante l’epoca Medievale e ,successivamente, nel 1669 quando si è verificato il più grosso evento eruttivo degli ultimi 400 anni che ha causato la distruzione di numerosi paesi e villaggi e della porzione occidentale della città di Catania. Infine, la storia recente del vulcano ha evidenziato che dopo l’eruzione laterale del 1971 si è registrato un graduale aumento nella frequenza di accadimento delle eruzioni sia laterali che sommitali.

Sezione di Catania Osservatorio Etneo Piazza Roma, 2 95123 Catania, Italy Tel. +39 095 7165800 http://www.ct.ingv.it 

Origine e diffusione, tra il mito e la storia

Gli agrumi hanno avuto origine in Cina ed in altre regioni orientali quali Malesia, India, Thailandia. Nel tempo si diffusero dai luoghi di origine ad altre regioni orientali e da qui seguirono il cammino della civiltà, unendo idealmente l’Oriente e l’Occidente. Le prime notizie riguardanti gli agrumi in Cina risalgono al tempo dell’imperatore Ta Yu (intorno al 2205-2197 a.C.), alla sua corte gli agrumi venivano inviati come tributo da regioni lontane. La civiltà cinese riservò agli agrumi ruolo fondamentale, al punto che alcuni imperatori crearono delle figure istituzionali con l’incarico di controllare le attività colturali e imposero di ricevere frutti e semi quali tributi. Gli agrumi ebbero nella civiltà cinese il ruolo che la vite rivestì per l’antica civiltà di Roma. I contatti economici e culturali fra le regioni meridionali della Cina e la penisola dell’Indocina risalgono perlomeno al III sec a. C quando l’attuale Vietnam divenne territorio del regno di Nam Viet, localizzato nel sud della Cina, inglobato dall’impero cinese nel 1100 a. C.. Nella penisola della Malesia, alla fine dell’era precristiana, comunità locali commerciavano con Cinesi, Indiani ed altre popolazioni delle vicine isole. Questi avvenimenti permisero certamente lo scambio di piante, semi e frutti di agrumi. La più antica citazione riguardante un agrume si ha in India in un testo sacro risalente circa all’800 a.C. e riguarda quasi certamente il cedro e/o il limone. Probabilmente il cedro arrivò in Mesopotamia portato dalle carovane che commerciavano con l’India, attraverso i territori degli attuali Pakistan e Afghanistan e, secondo una cronologia non ben nota, venne conosciuto dai Persiani che si impadronirono della Regione nel 539.a. C.. E forse in Mesopotamia, ai tempi della loro prigionia babilonese (597 a.C. ed altri anni), gli Ebrei conobbero il cedro. Nel 327 a.C. Alessandro Il Grande nella sua opera di ellenizzazione del mondo allora conosciuto portò al suo seguito non solo eserciti militari ma anche studiosi e scienziati tra i quali botanici che chiamarono il cedro “pomo della Media” o anche “pomo della Persia”. La mitologia greca raffigura le arance come le favolose “mele d’oro” del giardino delle Esperidi. L’incantevole leggenda è narrata nella Teogonia di Esiodo. Al confine occidentale della terra, dove il giorno e la notte s’incontravano, in un’isola al centro del mare fioriva un giardino stupendo dove le Esperidi dall’amabile canto custodivano i pomi d’oro. A guardia stava il drago Ladon. L’albero dei frutti d’oro era stato generato in occasione delle nozze tra Zeus ed Era, per farne dono particolare e festoso. Gli agrumi diventarono così simbolo della fecondità e dell’amore. Roma al culmine della sua espansione territoriale (intorno al 117 a.C.) ebbe notizia del cedro tramite la cultura ellenistica ma mosaici e sculture sparse nell’ Impero fanno pensare che i Romani conoscessero anche il limone e la lima. L’etimologia del termine agrume deriva dal tardo latino “acrumen”, agro. Il termine “arancia” deriva probabilmente dal sancrito nagaranja, che significa frutto prediletto dagli elefanti, giunto in Europa attraverso la parola arabo-persiana narang o dal latino aurum. Gli Arabi conobbero presumibilmente l’arancio amaro in India e da lì lo trasportarono dapprima nella penisola arabica e, parallelamente alla loro espansione militare e culturale, nell’Africa settentrionale, in Spagna ed in Sicilia intorno al X secolo. Gli Arabi diedero agli agrumi un importante ruolo decorativo grazie all’abilità dei giardinieri e ne valorizzarono l’importanza agricola avvalendosi di nuove tecniche irrigue e di coltivazione intensiva. I valenti studiosi, medici, botanici arabi descrissero le caratteristiche della pianta, del frutto e ipotizzarono le proprietà terapeutiche degli agrumi. I Normanni introdussero termini ancora oggi utilizzati nel dialetto siciliano quali lumìe (limoni), arengie (arance) e jardinum (giardino, agrumeto).
Tra il 1096 ed il 1204 i Crociati che si recavano in Terra Santa probabilmente importarono dall’Oriente l’uso del mazzetto di zagara diffuso in tutto il mondo. Gli amalfitani, i genovesi ed i veneziani fecero da tramite agli agrumi dalla Palestina al mar Tirreno e da lì in tutta Italia, nel sud della Francia e della Spagnal. Tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento l’arancio amaro, il cedro, il limone e la lima erano oggetto di commercio in Europa. L’arancio dolce venne portato in Europa probabilmente dal navigatore portoghese Vasco de Gama ed il termine “Portogallo” è stato sinonimo di arancio in tutto il Mediterraneo fino a tempi abbastanza recenti. Altra ipotesi attribuisce l’introduzione dell’arancio dolce, prima nei giardini della Liguria e successivamente in tutto il Mediterraneo, ai Genovesi, i quali, alla fine del XIII secolo, da navigatori e commercianti insuperabili, attendevano le carovane provenienti dalla Cina e dall’India lungo le coste del Mar Nero per acquistare le pregiate mercanzie. Durante il Rinascimento gli agrumi assunsero un posto preminente nell’arredo a verde di ville e giardini: essi si estendevano dalla Sicilia a Napoli, in Liguria, lungo le rive del lago di Garda, in Toscana, a Roma. Nei luoghi con clima sfavorevole cominciò a diffondersi l’uso di proteggere le piante nella stagione fredda o di riparararle in strutture coperte chiamate aranciere (in Francia “orangeries”), antesignane delle moderne serre. Gli agrumi fra i nobili ed i benestanti assunsero un significato di status symbol, al punto che nacquero collezionisti di specie e varietà. Tra la fine del XVI secolo e la metà del XVIII in Europa ed in Italia molti maestri pittori scelsero come soggetti gli agrumi nella raffigurazione di opere morte. Nel Medioevo e nel Rinascimento I frutti venivano utilizzati per insaporire carni arrosto e nella preparazione dei dolci, in Italia ed in altre regioni d’Europa. Gli speziali manipolavano gli agrumi per la preparazione delle confetture, dei medicinali e degli oli essenziali, pregiatissimi per l’industria dei profumi. La tecnica di estrazione degli oli essenziali era conosciuta dagli Arabi ma furono gli Italiani a valorizzarne la produzione in profumeria. La moda dei profumi nacque in Sicilia ed a Napoli, dilagando presto in tutta Italia ed Europa La riviera ligure e provenzale si affermarono a partire dal XVII secolo quale area di produzione e commercio di agrumi, sia di frutti che di piante, Nel tardo seicento, si preparavano salse utilizzando i fiori canditi o succo fresco e cannella, ed il frutto bello a vedersi, era esibito sulla tavola in forme artistiche. Nel ‘700 l’acqua di fiori d’arancia veniva utilizzata nel Regno delle Due Sicilie per la preparazione di dolci quali pastiera napoletana, cassata siciliana, sfogliatine di ricotta, mentre in Liguria si confezionavano i canditi e si sperimentavano tecniche di conservazione.

Gli agrumi in Sicilia

Nel XVIII e XIX secolo grazie ai progressi dei trasporti l’area di produzione e commercio degli agrumi si spostò dalla Liguria alla Sicilia, grazie alla sua strategica posizione territoriale ed al clima ideale. In quel tempo in Sicilia apparvero le “acque ghiacce; anticipatrici delle granite, profumate di limone e d’arancia. Ciò influenzò profondamente la cultura siciliana, Quando nel panorama della Sicilia si inserisce una visione dell’arancio gli scrittori ne subiscono il fascino come un incanto. Goethe interroga: ”Conosci tu la terra ove fioriscono i limoni e tra nere fronde, s’infuocano gli aranci”. E nel suo diario di viaggio in Italia descrive le meraviglia di: “Spalliere di agrumi che s’incurvano in graziose capanne”. Intanto in Sicilia gli elevati redditi forniti dagli agrumeti determinavano l’espansione territoriale delle coste e dei centri urbani. Il commercio era affidato ai velieri che portavano i limoni perfino negli Stati Uniti in tutti i mesi dell’anno. Grande impulso venne dato all’esportazione con l’avvento dei motori a vapore. Gli agrumi erano diretti inegli Stati Uniti,
in Russia, in Germania, nell’impero austriaco e venivano commercializzati quale prodotto fresco ma anche in succo, chiamato “agro-cotto”, scorze ed essenze. La via del commercio partiva dal porto di Messina per dirigersi a Roma, Venezia, Trieste, in Inghilterra, in Olanda, in Danimarca, in Svezia. Anche il poeta Guido Piovene rappresenta l’agrumeto con vigore ed intensa emozione: “Un giardino d’aranci siciliano è una delle visioni più belle che esistano. Qui ci si accorge come un giardino di aranci sia una persona viva, esiga cure assidue ed un amore quotidiano....il giardino d’aranci s’attacca, s’incarna nell’uomo e diviene una specie di assillo indispensabile.... la pianta d’arancio è oro e sangue che secondo il linguaggio di Mastro don Gesualdo del Verga sono la stessa cosa...”. Il tedesco Engelmajer: “E il sole che ha lasciato sui fiori e sulla arancia e nei nostri cuori l’oro malleabile e tenero dell’amore e il suo colore, il profumo, il candore”, Garcia Lorca: “ e la luna piangendo disse: vorrei essere un’arancia!”. La preminenza nel Mediterraneo della produzione e commercio di agrumi rimase appannaggio della Sicilia fino alla seconda guerra mondiale.

VASTEDDA DELLA VALLE DEL BELICE 

Come un grande triangolo incuneato a meridione tra la catena dei Monti Sicani e l’estremo tavoliere occidentale della Sicilia, la Valle del Belìce costituisce uno dei territori siciliani più ricchi di storia, colonizzato a sud dai Greci, a nord dagli Elimi e ad ovest dai Fenici e dai Cartaginesi.

In questa culla di antiche civiltà, in questo crogiuolo di razze ed usanze, l’attività casearia vanta una tradizione antichissima. Le diverse tecniche di lavorazione e la varietà degli attrezzi utilizzati sono parte integrante del contesto socio-culturale della locale civiltà contadina e pastorale, del suo linguaggio, della sue credenze popolari.

Sin dall’antichità il formaggio è uno dei più importanti prodotti dell’agricoltura e della pastorizia, sinonimo di alimento completo e indispensabile nella dieta quotidiana. Era conosciuto dagli antichi popoli che hanno abitato questo lembo di Sicilia come metodo naturale per la conservazione del latte, un bene primario e prezioso, che pur nella trasformazione subita manteneva intatte le proprie caratteristiche nutritive.

L’allevamento ovino, che secondo alcuni studiosi in Sicilia è antecedente all’avvento dei Fenici, anche nella Valle del Belìce si perde nella notte dei tempi e ne rappresenta da sempre l’attività zootecnica fondamentale. La commercializzazione del formaggio prodotto nella Valle del Belìce è documentata già alla metà del XV secolo, epoca in cui il Vicerè di Spagna ne ordinò la vendita al minuto per la povera gente.
E’ in queste amene vallate che viene allevata la pecora di razza “Valle del Belìce”, alla cui origine hanno concorso tre differenti razze: la Pinzirìta, la Comisàna e la Sarda. Animale di taglia media, con testa fine, allungata, leggera, arti robusti e vello bianco, la generosa pecora belicina, nota per la sua alta produttività, per gran parte dell’anno si alimenta nei fertili pascoli naturali, grazie al clima tipicamente mediterraneo della zona, con estati calde ed asciutte ed inverni non eccessivamente freddi. In alcuni periodi, l’alimentazione viene integrata con concentrati e fieno di produzione aziendale. Oggi conta una popolazione di oltre 60.000 capi, ognuno dei quali é capace di produrre in media oltre 250 litri di latte per ogni lattazione.

Dalla trasformazione di questo prezioso latte nasce la “Vastedda della valle del Belìce”: se non l’unico, di certo uno dei pochissimi formaggi ovini a pasta filata del mondo. La zona geografica di produzione della ‘Vastedda’ comprende un vasto territorio a cavallo delle province di Trapani, Agrigento e Palermo, ed interessa precisamente i Comuni di Calatafimi, Campobello di Mazara, Castelvetrano, Gibellina, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Santa Ninfa, Vita, Caltabellotta, Santa Margherita Belice, Montevago, Menfi, Sambuca di Sicilia, Sciacca, Contessa Entellina e Bisacquino (nella sola frazione denominata San Biagio).
Fino a pochi anni fa la caseificazione della “Vastedda della Valle del Belìce” era limitata al periodo estivo, utilizzando latte di pecora a fine lattazione. Oggi viene prodotta tutto l’anno e si è inserita a pieno titolo nell’antica tradizione dei formaggi siciliani, grazie anche al riconoscimento della “DOP”, Denominazione d’Origine Protetta. Il riconoscimento DOP garantisce che la Vastedda è prodotta secondo l’antica tradizione, utilizzando latte e caglio prodotti esclusivamente nella valle del Belìce.

Il procedimento di lavorazione della Vastedda è riportato nel rigido disciplinare di produzione approvato dal Ministero dell’Agricoltura, ma la lavorazione artigianale del casaro e l’utilizzazione del latte crudo danno origine a Vastedde di alta qualità differenti le une dalle altre.

Solitamente il latte ovino intero crudo, ad acidità naturale di fermentazione, di una o più mungiture, opportunamente filtrato con appositi setacci in tela, viene riscaldato in caldaie di rame stagnato. La coagulazione del latte avviene in una tina di legno utilizzando “caglio in pasta” di agnelli di razza Valle del Belìce allevati nell’omonima valle. Anche la produzione del caglio è artigianale ed è realizzata nella zona di produzione. Con l’ausilio della rotula, bastone di legno, la cagliata viene rotta in piccolissimi grumi che vengono lasciati rassodare per qualche minuto. La pasta viene depositata in canestri in giunco e lasciata maturare. Quando la pasta è idonea ad essere filata, si taglia a fette. Ora è pronta per essere collocata all’interno di un tinozzo in legno detto Piddiaturi. Qui, viene ricoperta con acqua o “scotta” calda (tra 80 e 90°C). Dopo l’immersione (che dura dai 3 ai 7 minuti), la pasta viene filata con l’ausilio di una paletta in legno. Quando ha raggiunto la giusta consistenza ed una superficie bianco-lucida, dalla massa della pasta vengono staccate delle porzioni a forma di sfera che, lavorate manualmente, vengono richiuse nel punto di distacco stringendo velocemente tra il pollice e l’indice le labbra della sfera: è in questa fase che viene esaltata l'abilità del casaro.

Le sfere, accuratamente chiuse, sono collocate, con la chiusura in basso, in un piatto fondo di ceramica, dove in breve tempo assumono la tipica forma ovoidale appiattita. Dopo 6-12 ore dalla filatura, quando le forme raffreddano e prendono consistenza, vengono salate in salamoia per un tempo che varia da 30 minuti a 2 ore, e sono poste ad asciugare in locali freschi e ventilati. Dopo 12-48 ore la Vastedda della valle del Belìce è pronta per essere consumata.
Formaggio straordinario per fragranza ed intensità gustativa, la ‘Vastedda’ va mangiata fresca. In ambienti freschi e asciutti può conservarsi per qualche tempo, ma non é un prodotto che si presta alla stagionatura. Si può gustare con un primo piatto, o in abbinamento con marmellate o gelatine di agrumi, o ancora nel modo più classico: condita con olio extravergine siciliano e origano e magari accompagnata da una buona fetta di pane.
Per diffondere tra i consumatori la conoscenza dei pregi della “Vastedda della Valle del Belìce” e per salvaguardarla contro qualsiasi forma di usurpazione del nome e di imitazione, nel 2001 è stato costituito il Consorzio per la Tutela del formaggio Vastedda della valle del Belice, con sede ad Agrigento. Oggi il consorzio conta oltre 50 soci fra produttori di latte e produttori di formaggio che, con la loro tenacia, tipica del popolo siciliano, hanno conseguito la Denominazione di Origine Protetta dopo un lungo percorso durato oltre 6 anni.
La Vastedda della Valle del Belìce è presidio Slow Food. Sagre, fiere e manifestazioni, contribuiscono alla sua promozione e alla fruizione dei luoghi di produzione, in un’area ricca di siti già frequentati dal turismo ‘culturale’.
La Vastedda della Valle del Belìce DOP costituisce senza ombra di dubbio, oltre che un patrimonio culturale del territorio, anche una buona leva per lo sviluppo economico dell’intero comparto zootecnico e caseario, in grado di restituire dignità agli allevatori della valle del Belice.

Testo del documentario “VASTEDDA DEL BELICE” (Editrice Il Sole, 2008) Testo e regia Giovanni Montanti

In cantina LE REGOLE BASE PER CONSERVARE BENE IL VINO La vita del vino non dipende soltanto dalla qualità del vitigno, dalla cor retta lavorazione e dall’annata più o meno fortunata. Può dipendere an che, e soprattutto, dalla sua conservazione. Grandi vini destinati a un lun go invecchiamento vengono irrimediabilmente distrutti dalla permanenza in ambienti caldi, luminosi o, peggio, soleggiati. Il vino, in altre parole, vi ve più a lungo se lo si tiene in un luogo fresco, a temperatura costante, buio, lontano da vibrazioni e traumi. Le regole per creare un luogo di questo genere sono abbastanza com plesse. Il discorso è facilmente affrontabile quando ci si appresta a co struire una casa. Più difficile, invece, se si deve adattare un ambiente, specialmente se si vive in città e si hanno a disposizione soltanto le can tine condominiali. Si tengano tuttavia presenti alcuni punti fondamentali. La cantina ideale dovrebbe essere dislocata a nord, sotterranea o semin terrata, lontana da rumori e vibrazioni, asciutta, ma non secca, bene ae rata, con impianto di illuminazione tenue e indiretto, a temperatura co stante attorno ai 14 °C e, comunque, oscillante fra i 12 °C e i 16 °C. Per ottenere queste condizioni, e garantire anche una certa escursione igro metrica, i muri migliori sono quelli in cotto e il pavimento dovrebbe avere un sottofondo ghiaioso ricoperto di cotto o di terriccio pressato. Gli scaffali, per questioni di temperatura e di vibrazioni, devono essere di legno, a maggior ragione se la cantina si trova in città, vicina a una stra da trafficata dove più facilmente le bottiglie possono essere disturbate. Per gli stessi motivi le bottiglie, sempre coricate, non devono assoluta mente toccare i muri e tanto meno il pavimento. Anche quelle sistemate nella parte inferiore dovranno quindi essere appoggiate su assi. È infine importante ricordare che le bottiglie vanno deposte con l’etichetta verso l’alto, in modo da sapere sempre su quale lato possono essersi deposita ti nel tempo gli eventuali sedimenti ed evitarne l’uscita quando si versa o si decanta il vino in caraffa. ORIZZONTALI O VERTICALI? Al momento di sistemare le bottiglie in cantina nasce sempre il dubbio. Quali vanno messe orizzontali e quali verticali? Si dice in genere che i rossi vanno orizzontali e i bianchi verticali. In realtà potrebbero stare be nissimo tutti orizzontali. Molti pensano che nella bottiglia coricata, il vino, a contatto con il tappo, possa prenderne il sapore e deteriorarsi. Non è così. Il difetto si verifica solo con i tappi di cattiva qualità o danneggiati. Al contrario il contatto con il liquido consente al sughero di mantenersi umido e compatto, e impedisce all’aria di entrare nella bottiglia. Per lo stesso principio la bottiglia conservata in posizione verticale troppo a lun go rischia l’essiccazione rapida del tappo e di conseguenza l’entrata del l’aria. La regola, quindi, è semplice. Le bottiglie destinate a riposare ab bastanza a lungo in cantina vanno messe coricate. Appartengono a que sta schiera tutti i vini rossi e quei vini bianchi dotati di particolare struttura e di buon grado alcolico in grado di invecchiare qualche anno, per esem pio certi Tocai, Sauvignon o Verduzzi friulani, i bianchi da uve nere, gli Champagne e gli spumanti, i Vin Santi, tutti i vini da dessert come i Sau ternes, la Malvasia di Lipari, il Moscato di Pantelleria ecc. In posizione verticale possono essere tenuti tutti i vini (generalmente la maggior parte dei bianchi, i vini novelli e qualche rosso leggero) che vengono consu mati nell’arco di qualche mese o, al più, di un anno dalla vendemmia. L’IMPORTANZA DELLA CANDELA In ogni cantina bene organizzata è importante avere a disposizione un portacandele con una candela e una scatola di fiammiferi. Quando si esaminano le bottiglie, infatti, l’osservazione in trasparenza contro la fiammella della candela consente di controllare la limpidezza del vino, il livello di precipitazione dei sedimenti e aiuta a capire se quel vino è pron to per essere stappato oppure se deve rimanere ancora a riposare.

Il vino nella storia Le origini Chi fu il primo uomo a fare il vino? La storia non lo dice. Sappiamo però che l’uva esiste da due milioni di anni e così, possiamo dedurne, il vino. Le tecniche per produrlo sono arrivate molto più tardi, ma è certo che ovunque l’uomo cogliesse dei grappoli d’uva e tentasse di conservarli in un recipiente capace di trattenerne il succo faceva inconsapevolmente il vino. Avrà bevuto quel succo, traendone conforto e senso di benessere, e avrà capito a poco a poco come poteva ottenere maggiori quantità di quel liquido miracoloso che si formava semplicemente perché il peso dei grappoli superiori schiacciava quelli inferiori. Avrà provato a spremere tutti i grappoli prima con le mani, forse, poi con i piedi, mettendo così a punto un procedimento destinato a rimanere valido per migliaia di anni, fino all’avvento dei primi torchi latini e, più tardi, delle moderne pigiatrici. Le prime tracce di vinaccioli, i semi dell’uva, sono state trovate in scavi archeologici in Turchia, vicino alla città di Catal Hüyük, in Siria, presso Damasco, in Libano, a Byblos, e in varie località della Giordania. Potreb bero risalire a 8000 anni prima di Cristo, ma si tratta solo di ipotesi. Le pri me notizie certe, grazie alla prova scientifica del carbonio 14, si riferisco no invece ad altri semi trovati nella Georgia meridionale, sulle sponde del Mar Nero, databili con buona sicurezza fra 7000 e 5000 anni a.C. Alcuni archeologi russi si dicono convinti che sia questo il periodo del passag gio dalla vite selvatica a quella coltivata. A prova di ciò indicano una gia ra di terracotta risalente al 5000-6000 a.C., esposta nel museo di Tbilisi, la capitale della Georgia. Il recipiente, simile al pithos greco, reca sui lati decorazioni a gruppi di palline che potrebbero richiamare l’immagine di grappoli d’uva. Sempre il museo georgiano accoglie altri oggetti legati alla vite. Vi sono dei tralci grandi quanto un dito avvolti da lamine d’argento. Il legno è per fettamente conservato. Non v’è certezza circa il loro uso, probabilmente l’argento rivestiva la vite per dimostrarne il valore, e il tralcio accompa gnava così nella tomba i defunti per poter essere ripiantato in un’altra vi ta. Si tratta comunque di reperti risalenti al 3000 a.C., la stessa epoca in cui molto più a sud, in Mesopotamia, nasceva la civiltà dei Sumeri. Esistono nel mondo oltre quaranta tipi di vite. Conosciamo tutti la vite americana che si arrampica su pareti e pergole per tingerle di rosso sma gliante ogni autunno: è l’esempio più diffuso che abbiamo a disposizione per capire la differenza tra una vite non fruttifera e la Vitis vinifera, porta trice di vino, l’unica in grado di condensare una quantità di zucchero pa ri a un terzo del peso di ogni acino. L’area di sviluppo ideale della pianta fu compreso, alle origini, nelle latitudini temperate fra le coste persiane del Mar Caspio e l’Europa occidentale. Più tardi, con la scoperta dei nuo vi continenti, la vite ha trovato condizioni altrettanto favorevoli in altre par ti del mondo, dalla California al Sudafrica, dall’America Latina all’Austra lia e alla Nuova Zelanda.

 

 

Il vino nell’antichità L’episodio legato al vino che ci è più noto, soggetto di molti dipinti famo si (lo vediamo raffigurato da Michelangelo sul soffitto della Cappella Sisti na), è narrato dalla Bibbia nel IX capitolo della Genesi. Noè, sbarcati gli animali dall’arca, «cominciò a lavorare la terra, e piantò una vigna. E, avendo bevuto del vino, si inebriò e giacque scoperto nella sua tenda. E Cam, padre di Canaan, avendo veduto le vergogne di suo padre, andò fuori a dirlo ai suoi due fratelli». Si sa che, a questo punto, Sem e Jafet presero un mantello ed entrarono nella tenda camminando a ritroso per non vedere il genitore in quello stato. Lo coprirono e tornarono fuori. So no altrettanto note le conseguenze del fatto; la maledizione di Noè con dannerà Cam a generare una stirpe inferiore della razza umana: «Egli sarà il servo dei servi dei suoi fratelli». A parte ogni considerazione teologica sull’evento, a noi interessa osser vare un fatto. L’arca, secondo le teorie più accreditate, sarebbe finita in secca sulla vetta del Monte Ararat, la cima più elevata del Piccolo Cau caso. Ciò confermerebbe l’origine del vino sulle pendici collinari ai piedi del Caucaso. Esiste anche la testimonianza senz’altro autorevole di Erodoto. Lo storico greco racconta infatti con molti dettagli il trasporto del vino a Babilonia per via fluviale lungo il corso dell’Eufrate, che nasce nella catena del Caucaso, la stessa del Monte Ararat, e scende a unirsi con il Tigri per sfociare nel Golfo Persico. Le imbarcazioni, fatte con telai di rami di sali ce e pelli tese, trasportavano botti di legno di palma colme di vino. A Ba bilonia, scaricata la merce, i barcaioli recuperavano le pelli e tornavano via terra, a dorso d’asino, fino al luogo da cui erano partiti, dove costrui vano altre barche per riprendere il viaggio. Il racconto di Erodoto è la conferma che il vino è sempre stato uno degli elementi di maggior rilievo, insieme con le spezie, i metalli pregiati e i ma nufatti, di ogni forma di commercio. Sono numerosi i relitti di navi trovati nel Mediterraneo, soprattutto orientale, con il loro carico comprendente, tra le altre cose, anfore vinarie. Le correnti di traffico collegavano la terra di Canaan, grosso modo gli odierni Libano e Israele, con l’Egitto, le isole di Cipro e Creta, la costa dell’Anatolia e la Grecia. Leggi severe disciplinavano la materia. Dal Codice di Hammurabi, il re che governò a Babilonia fra il 1792 e il 1750 a.C., sembra che il commer cio vinicolo fosse riservato alle donne, con pesanti responsabilità. Era prevista, infatti, la pena di morte se una venditrice sbagliava il conto o se non riferiva alle auto rità complotti o illeciti carpiti agli avventori del suo locale. Terribi le, infine, la pena per una sa cerdotessa che avesse osato recarsi a bere in una mescita di vino: veniva bruciata viva. Più tollerante, ma altrettanto rigoro so, un codice ittita, redatto suc cessivamente, che dedicava un intero paragrafo alle leggi ri guardanti la protezione dei vi gneti e comminava multe seve re a chi lasciava che le pecore entrassero nelle vigne.

 

 Particolare di una tavola del 2600 a.C. che rappresenta un brindisi tra due personaggi vestiti in abiti sumerici (Museo di Baghdad). 

 

 

 

 

La nascita di Enotria Quando i Greci cominciarono a muoversi per colonizzare le terre d’occi dente, i Fenici li avevano preceduti di parecchio e avevano già fondato Cartagine e la lontana Cadice, stabilendo delle basi intermedie che ser vivano come tappe nei loro lunghi viaggi commerciali: sull’isoletta di Mo zia, davanti a Marsala, in Sicilia, a Nora, presso Pula, in Sardegna. Furono più d’una le popolazioni greche lanciate alla conquista delle nuo ve terre con un fenomeno migratorio paragonabile a quello che si sareb be ripetuto molti secoli dopo fra l’Europa e l’America. I Greci dell’Eubea fondarono una prima colonia a Ischia e, più tardi, a Cuma e a Naxos sul la costa siciliana ai piedi dell’Etna. I Corinzi raggiunsero le sponde meri dionali della Sicilia fondando Siracusa mentre, poco lontano, arrivarono da Rodi a fondare Gela e, più tardi, Neapolis, l’odierna Napoli. Gli Achei, dal Peloponneso, si fermarono in Calabria e nacque Sibari, poi salirono verso la Campania e sorse Poseidonia, la Paestum di cui ammiriamo og gi gli intatti templi. Gli Spartani fecero altrettanto con Taranto. Stava for mandosi la Magna Grecia che ebbe anche il nome di Enotria, letteral mente “il paese delle viti sostenute da pali”. La definizione è importante, perché indica un sistema di coltivazione già notevolmente evoluto. È quindi certo che furono i Greci a portare con sé le barbatelle di quei vi tigni destinati a ricoprire ben presto tutti i terreni italici adatti alla nuova pianta. Ma è altrettanto certo che trovarono già la vite, introdotta prima di loro dagli Etruschi nei territori dell’attuale Toscana e coltivata con il siste ma della cortina semplice, diverso da quello dei Greci che imponeva un palo di sostegno per ogni pianta. Gli Etruschi tuttavia si limitarono al com mercio, arrivando a vendere fino in Borgogna senza diffondere la coltura viticola. Furono comunque dei grandi produttori e consumatori, come te stimoniano i corredi funerari e i dipinti nelle necropoli. Furono anche i pri mi a usare il sughero per chiudere un’anfora; ne è stata trovata una risa lente al 600 a.C. Gli studiosi concordano tuttavia nel ritenere che il grande fenomeno del l’espansione del vino nell’Europa occidentale abbia avuto inizio con la colonizzazione greca, attorno al VII secolo a.C. A riprova di ciò converrà ricordare che uno dei vitigni più diffusi nel meridione d’Italia, l’Aglianico, deriva il suo nome dalla corruzione dell’originario Ellenico, e che in Irpi nia, ad Atripalda, si coltiva tuttora il Greco di Tufo, con il quale si produce un grandissimo vino bianco. A Roma la vite è in un primo tempo coltivata per il consumo privato poi, con il prosperare della città e il miglioramento

Salsa d’uova (conza o riconzu)
Questo condimento è usato in alcune zone della Sicilia per condire pasta, verdure o carne, che vengono rimessi sul fuoco, o in forno, per il tempo necessario a far rapprendere le uova
Ingredienti per 4 persone:
  1. 2 uova
  2. pecorino grattugiato
  3. 1 ciuffo di prezzemolo (facoltativo)
  4. sale, pepe
Tempo di preparazione: 10 minuti

Sgusciate le uova in una ciotola; aggiungete il prezzemolo tritato, una presa di sale e una spolverata di pepe e battete tutto con una forchetta, fino ad ottenere un composto omogeneo. Unite pecorino a piacere e versate la salsa sulla pietanza calda.

 

Salmoriglio per carni e pesci arrosto.

Ingredienti per 4 persone:
  • 1 bicchiere d’olio extravergine d’oliva
  • origano sale e pepe
  • 2 limoni
  • peperoncino (facoltativo)
  • prezzemolo (facoltativo)
Tempo di preparazione: 15 minuti

Versate l’olio in una ciotola e aggiungete il succo di limone filtrato, una presa di sale, una spolverata di pepe e un pizzico di origano; poi, sbattete tutto con una forchetta fino ad ottenere una salsina omogenea.

Usato soprattutto sul pesce spada alla griglia. Per le preparazioni di pesce si unisce altresì del prezzemolo.

Variante: Il condimento può anche essere preparato aggiungendo agli ingredienti indicati 2 spicchi d’aglio tritati e mezzo bicchiere d’acqua e scaldando tutto per qualche minuto a bagnomaria.

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