Encelado,
il maggiore dei giganti, desiderava prendere il posto di Giove e cosi poter dominare. Per far questo doveva raggiungere la Dimora degli dei. Pensò quindi di costruire una scala mettendo una sopra l'altra le montagne del mondo e si rivolse ai suoi fratelli per farsi aiutare. Encelado, era molto temuto dai giganti e nessuno voleva contrastarlo. Infatti quando si arrabbiava sputava fuoco e scintille tanto da incendiare i suoi stessi capelli, che però prontamente gli ricrescevano. Insomma oltre che un aspetto orribile aveva anche un pessimo carattere. I giovani fratelli loro malgrado presero il Monte Bianco, il Monte Pindo dalla vicina Grecia, le grandi montagne dell'Asia e le accatastarono una sull'altra. Essendo la meta ancora lontana. recuperarono anche le alte montagne africane. Erano quasi in vista della meta, quando Giove furibondo per l'arroganza dimostrata, scagliò sui giganti un fulmine facendoli precipitare giù. I giganti feriti e doloranti si contorcevano a terra, Giove non ancora soddisfatto colpì con un altro fulmine la catasta di montagne, che si frantumò in tanti pezzi ricoprendo i corpi dei ribelli. Encelado rimase sepolto sotto diverse montagne. La testa resto sepolta sotto il monte Etna. Per l'incapacità di potersi liberare dal peso che lo tratteneva sepolto, sfogo la sua rabbia eruttando fiamme dalla bocca che salirono fino in vetta della montagna uscendo con un rombo violentissimo. La lava fusa dal respiro del gigante scorreva lungo i pendii dell'Etna distruggendo ogni cosa che incontrava e facendo fuggire gli abitanti in preda al panico. Cosi la leggenda racconta la nascita del vulcano Etna. Il gigante ogni tanto si risveglia e scatena la sua forza. E cosi che l'Etna sembra risvegliarsi dal suo pacifico torpore riempendo il cielo di faville e rivestendo le sue pendici con nuovi fiumi di lava.
diverse fonti
Secondo un'altra versione:
Tifeo aveva membra smisurate, era metà uomo e metà bestia. Aveva la testa d'asino, le ali da pipistrello ed era più alto della più alta montagna del mondo. Con le mani riusciva ad acchiappare le stelle e con le gambe riusciva ad attraversare il mare Egeo in 4 passi dalla penisola Ebea fino alle spiagge di Troia. Sulle spalle aveva 100 serpenti che invece di sibilare, a volte latravano come cani, a volte ruggivano come leoni. Ognuna delle gambe era formata da due draghi attorcigliati, orribili a vedersi che facevano capolino con le teste, da dietro le anche. La sua barba e i suoi capelli ondeggiavano al vento e dagli occhi fuoriuscivano lingue di fuoco e lui sputava di continuo massi incandescenti. »
Luciano De Crescenzo, Zeus - Le Gesta degli Dei e degli Eroi
Dalla mitologia greca: Tifone, anche detto Tifeo o Tisifeo, il cui nome vuole dire "fumo stupefacente".
Gea, delusa per la sconfitta dei suoi figli, i Titani e i Giganti, per opera di Zeus, si lamentò di lui presso la moglie del re degli dèi: Era. La regina degli dèi credette alle parole della dea e, decisa a vendicarsi contro il suo consorte, si rivolse a Crono, che Zeus aveva precedentemente spodestato, e lo pregò di aiutarla. Deciso a vendicarsi del figlio-rivale, il re dei titani e del tempo si masturbò su due uova, che affidò alla dea, aggiungendo di sotterrarle in modo che, al tempo prestabilito, si aprissero per dare alla luce un demone capace di spodestare lo stesso Zeus. Era ascoltò i suoi suggerimenti e, dopo un certo periodo, da quelle uova nacque il mostro Tifone. Una volta cresciuto, Tifone salì fino al Monte Olimpo e incusse una tale paura agli dèi che questi si trasformarono in animali e si rifugiarono in Egitto (dove avrebbero dato vita al culto locale degli dèi animali).
Così si trasformarono gli dèi:
- Zeus si fece ariete,
- Afrodite pesce,
- Apollo corvo,
- Dioniso capra,
- Era una vacca bianca,
- Artemide un gatto,
- Ares un cinghiale,
- Ermes un ibis,
- Ade uno sciacallo,
- Pan trasformò solo la sua parte inferiore in un pesce e si nascose in un fiume.
Zeus fu aspramente redarguito dalla figlia Atena, che gli ricordò come da lui dipendesse il destino dell'umanità. Le due divinità assunsero così anch'esse proporzioni gigantesche ed affrontarono il mostro sul monte Casio, ai confini dell'Egitto. Nel primo, durissimo scontro Atena fu messa fuori combattimento in pochi istanti, ma subito dopo Zeus riuscì a respingere Tifone con un potente fulmine e quindi ad abbatterlo a colpi di falce. Quando però il re degli dèi si avvicinò per scagliare il colpo decisivo, Tifone gli strappò l'arma dalle mani e lo ferì gravemente, imprigionandolo poi in una caverna della Cilicia. Ermes e Pan accorsero allora a salvare Zeus. Pan spaventò il mostro con le sue urla, mentre Ermes liberò Zeus dalla prigione e lo curò. Il dio raggiunse l'Olimpo, prese la guida del suo carro alato e cominciò ad inseguire il gigante, colto di sorpresa dalla sua reazione. Una prima violenta battaglia si ebbe sul Monte Nisa e una seconda in Tracia, dove Tifone, ormai privo di controllo, cercò di fermare Zeus lanciandogli addosso intere montagne, ma ogni volta il Dio lo colpì implacabile con le folgori. Alla fine Tifone fuggì verso occidente e giunto in Sicilia tentò una disperata difesa sollevando l'intera isola per gettarla contro il Re dell'Olimpo. A questo punto, Zeus scagliò contro il gigante un ultimo, potentissimo fulmine che lo colpì in pieno. Tifone perse la presa e rimase schiacciato sotto l'isola che gli crollò addosso. La testa resto sepolta sotto il monte Etna e per questo fu motivo di eruzioni.
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Dal racconto del celebre poeta Claudiano, Plutone, re degli inferi, deciso a visitare la terra, emerse nei pressi di Enna, sui Monti Erei nel centro della Sicilia, e scorse Proserpina, figlia della dea Cerere, tra le tante fanciulle intente a cogliere fiori sulle rive del lago di Pergusa. Dal racconto che ne fa Strabone, che riporta Proclo, l'episodio del ratto si realizzò sul lido di Hipponion, sul mare Tirreno, dove il pirata Plutone arrivò dalla Sicilia e rapì Proserpina. Cerere, madre di Proserpina e dea dell'Olimpo, fu disperata alla notizia della scomparsa della figlia, e invocò l'aiuto di Giove, re di tutti gli dei, per aiutarla a ritrovare la bella Proserpina. I succosi chicchi di melograno legarono Proserpina all'Ade per sempre. Zeus, tuttavia, mosso a compassione, fece sì che Proserpina potesse trascorrere sei mesi ogni anno insieme alla madre (sarebbero l'estate e la primavera), e che i sei mesi restanti vivesse insieme a Plutone (ovvero autunno e inverno): è proprio al mito di Proserpina e all'ira di Cerere, infatti, che si fa risalire l'alternanza delle stagioni.
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La storia del Risorgimento siciliano prende le mosse da lontano e presenta due distinti periodi per i quali il 1860 rappresenta una sorta di spartiacque: la Sicilia borbonica (che precede questa data) e la Sicilia unitaria, che la segue.
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Penisola italiana nel marzo del 1860 (restano visibili i confini del 1859)
Passata la bufera napoleonica, tornò sul trono di Napoli nel 1815 re Ferdinando di Borbone, il quale non soltanto abolì la Costituzione concessa nel 1812 alla Sicilia (asserendo di non poter essere re costituzionale a Palermo e monarca assoluto a Napoli), ma con l’atto di unificazione dell’8 dicembre 1816 fuse i due regni in uno e divenne Ferdinando I delle due Sicilie. Non potendo fare altro i siciliani colpirono Ferdinando con la satira e motteggiarono:
«Fosti quarto e insieme terzo, Ferdinando, or sei primiero, e se seguita lo scherzo finirai per esser zero»; ma capirono anche che la delicata situazione della Sicilia poteva essere modificata solo gradualmente, ed inserendo i progetti per l’isola nel più ampio contesto delle riforme risorgimentali nazionali. Le rivoluzioni realizzate con tale fine furono quindi tre: la prima nel 1820-21 ebbe carattere separatistico, la seconda nel 1848-49 federale; e la terza fu di carattere unitario ed ebbe luogo nell'aprile del 1860, precedendo la venuta di Garibaldi nel maggio 1860, impresa che portò al plebiscito che sancì l’unità nell'ottobre dello stesso anno. Già nel 1820 era scoppiata una rivolta popolare di stampo indipendentista.
Anche questi moti partirono da Palermo il 15 luglio, giorno del ‘Fistinu’ della Patrona, al grido di:
"Viva Palermo e Santa Rosalia"
ed i rivoltosi, avendo saputo della concessione alla città di Napoli di una costituzione liberale di tipo spagnolo, reclamarono per la Sicilia il ripristino dello statuto del 1812, determinando nell'isola anche un inizio di guerra civile. Il 16 luglio i siciliani assalirono e conquistarono il forte di Castellamare a Palermo. Da Napoli fu inviato un corpo di spedizione capeggiato dal generale Florestano Pepe, il quale il 22 settembre a Termini Imerese si accordò con i rivoltosi e concesse loro un governo autonomo. L’accordo non fu approvato da Napoli e il generale Pepe venne destituito e rimpiazzato dal generale Pietro Colletta, il quale spense l’ultimo focolaio insurrezionale a Messina il 26 marzo del 1821. Lo scrittore francese Alexis de Tocqueville, che visitò la Sicilia nel 1827, trovò ancora vivo nell'isola il rancore per la dura repressione della rivolta, e per il rifiuto della richiesta autonomistica. Ferdinando I morì nel 1825, e gli successe il figlio Francesco I, che regnò fino al 1830, senza che migliorassero i rapporti tra Napoli e la Sicilia. La salita al trono di Ferdinando II, re delle Due Sicilie dal 1830 al 1859, suscitò inizialmente buone speranze, perché il sovrano sostituì nella luogotenenza isolana il Marchese delle Favare con il proprio fratello Leopoldo, conte di Siracusa, appagando così il secolare desiderio dei Siciliani di essere governati da un principe di casa reale, ma lo stesso Ferdinando divenne severo e diffidente dopo i moti palermitani del 1831, ripristinando così l’antico malessere dei siciliani nei confronti del dominio napoletano.
Nel 1837, a seguito dello scoppio di un’epidemia di colera, il popolo insorse a Siracusa, a Catania e in altre città, nella convinzione che la malattia fosse sparsa ad arte dal governo borbonico, e addirittura si credette che tra gli untori ci fossero personaggi illustri del governo. La reazione borbonica fu inesorabile. Una spedizione militare guidata dal ministro di polizia, il marchese Francesco Saverio del Carretto, piombò sull'isola e fece fucilare parecchi siciliani (otto a Catania, tra cui il letterato romantico Salvatore Barbagallo Pittà, direttore della rivista culturale Lo Stesicoro), e punì Siracusa, prima delle città ad essere insorta, togliendole la prerogativa di capoluogo di provincia, che passò a Noto. Il malcontento e l’esasperazione che avevano mosso i rivoltosi erano dunque stati repressi, ma persisteva la lampante necessità di un rinnovamento. La rivoluzione dunque era solo stata rimandata.
Nel 1842 fu pubblicata la stimolante Storia della guerra del Vespro dello storico patriota Michele Amari, con il titolo apparentemente innocuo di:Un periodo delle storie siciliane del secolo XIII ;
ma una volta scopertovi l’incitamento contro i Borboni, l’autore dovette andare in esilio in Francia, ed il censore che ne aveva permesso la stampa fu licenziato in tronco.La seconda rivoluzione anti borbonica scoppiò a Palermo il 12 gennaio 1848, l’anno chiave del Risorgimento siciliano. Questi moti ebbero in parte carattere federale, ed in parte carattere indipendentista.
Non a caso venne scelto come insegna il tricolore italiano, con al centro il simbolo siciliano della Trinacria. Il 9 gennaio 1848 un manifesto di Francesco Bagnasco incitava il popolo siciliano all'insurrezione, fissandone l'inizio per il 12 gennaio '48, il giorno del compleanno di Ferdinando II, nato proprio in questa data, a Palermo, nel 1810.
Nel giorno prestabilito venne convocato un assembramento in piazza della Fieravecchia a Palermo (oggi piazza Rivoluzione ) e si formò un comitato provvisorio militare guidato da G. La Masa e Paolo Paternostro. Quello stesso giorno si ebbero i primi scontri e la prima vittima, Pietro Amodei.
A riprova dell’anima ancora in parte indipendentista ed autonomista dei moti del ’48 siciliano, rimase a Palermo una lapide dedicata proprio a questo primo martire della rivoluzione. La lapide, dettata da Ugo Antonio Amico e posta sul prospetto meridionale dell’Università, nei cui pressi era caduto, recita:“Qui al 12 gennaio 1848 Pietro Amodei, primo martire del popolo insorgente, spirava la grande anima pago di sigillar col sangue la sua immobile fede nella indipendenza siciliana.”
Nessun riferimento al Risorgimento nazionale, alla patria italiana, ma solo alla Sicilia.
Gli insorti, ad ogni modo, non solo liberarono tutta l’isola, tranne l’inespugnabile cittadella di Messina, ma con il rinato Parlamento si diedero una nuova costituzione di stampo democratico liberale, che fu un esempio per l’Europa, poiché poneva il Parlamento al di sopra del re, che non aveva la facoltà di sciogliere, né di sospendere le Camere (art. 33); mentre il Parlamento, con l’articolo 2, aveva la facoltà di dichiarare decaduto il re, qualora questi risultasse re di altro Stato.
Quest’ultima non fu soltanto un’affermazione teorica. Il Parlamento siciliano, nella storica seduta del 13 aprile 1848, dichiarò decaduto il re Ferdinando II, perché re anche di Napoli; e dichiarò re di Sicilia il principe Alberto Amedeo di Savoia, secondogenito del re Carlo Alberto di Sardegna.
Purtroppo anche questa rivoluzione non ebbe esito felice, sebbene fosse durata sedici mesi, dal 12 gennaio 1848 al 15 maggio 1849, meritando l’altissimo elogio di Giuseppe Mazzini, che inviò un suo proclama ai patrioti siciliani:«Siciliani, voi siete grandi! Voi avete, in pochi giorni, fatto di più per l’Italia, patria nostra comune, che non tutti noi con due anni di agitazione... »;
e fu significativo l’invio, il 17 aprile 1848, di cento soldati siciliani, capitanati da Giuseppe la Massa (i cosiddetti “Crociati”) in Lombardia, che furono incorporati nelle truppe del generale Durando, e si batterono valorosamente a Treviso; e fu altrettanto significativo il fatto che le donne siciliane costituirono, la
“Legione delle sorelle pie”, antesignana della Croce Rossa,
per assistere i feriti e le famiglie dei combattenti.A re Ferdinando II i siciliani misero il soprannome di “Re Bomba”, per i terrificanti bombardamenti cui sottopose le città siciliane più importanti . Ma la rivolta non si spense: nel 1856 venne fucilato a Mezzojuso, in provincia di Palermo, Francesco Bentivegna, capo dei rivoltosi nel palermitano; nel 1857, per gli stessi motivi, venne fucilato a Cefalù il patriota Salvatore Spinuzza. Nel 1859 venne in Sicilia, sotto mentite spoglie, ed incurante della condanna a morte che pendeva su di lui per essere stato uno dei capi della rivoluzione del 1848-49, Francesco Crispi. Questi annunziò la prossima venuta di Garibaldi; e lo stesso fecero nel marzo del 1860 i due patrioti palermitani Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, che sfiorarono la morte per aver fomentato la rivolta antiborbonica. Ferdinando II morì il 22 maggio 1859, e gli successe il ventitreenne Francesco II. Poiché sua madre, Maria Cristina di Savoia, era morta di parto nel darlo alla luce nel 1826; e suo padre era morto quando egli aveva sposato Maria Sofia di Baviera, ed il suo regno era ormai traballante, il popolo siciliano decretò che Francesco II era «jettatore di sua madre, di suo padre e di sé stesso» e cantò con feroce ironia
«Cicciu nasciu, so’ matri muriu; Cicciu si maritau, so’ patri cripau; ora ch’è re, viditi chi c’è».E di fatto perse il regno.
Francesco Crispi nel suo esilio genovese aveva convinto Garibaldi a venire in Sicilia per mettersi a capo della rivoluzione unitaria. Garibaldi accettò a condizione che in Sicilia si verificasse un forte moto insurrezionale che gli facesse capire le reali intenzioni del popolo. La rivoluzione unitaria scoppiò a Palermo il 4 aprile 1860 e fu chiamata “della Gancia” dal convento dove si arroccarono i rivoltosi, ma venne ben presto domata dalla polizia. Nonostante ciò, il 6 aprile ebbe luogo una nuova insurrezione a Trapani, il 7 aprile una a Marsala, poi a Messina, a Corleone, a Cefalù, a Misilmeri, a Caltanissetta, ad Agrigento. Tali moti permisero a Crispi di dimostrare a Garibaldi che era giunto il momento di agire. Garibaldi con i suoi “Mille” partì da Quarto, presso Genova, il 5 maggio 1860. Tra i 1089 patrioti c’erano 45 siciliani. In Sicilia, però, ne arrivarono soltanto 752, pur continuando a chiamarsi “i Mille”. In realtà da quegli iniziali 1089 uomini si scissero i repubblicani irriducibili, avendo saputo che Garibaldi per la sua impresa aveva adottato il lemma monarchico “Italia e Vittorio Emanuele”.
Essi preferirono sbarcare a Talamone, guidati da Callimaco Zambianchi, e dicendo di voler tentare un attacco contro Roma. Garibaldi sbarcò a Marsala l’11 maggio. A lui si unirono subito le squadre dei “Picciotti” siciliani, ed il 14 maggio egli lanciò da Salemi (in provincia di Trapani) il famoso proclama con cui assumeva il comando in nome del re Vittorio Emanuele II (e fece di Salemi, praticamente la prima capitale d’Italia). Dopo la avventurosa vittoria di Calatafimi il 15 maggio, egli marciò verso Palermo; ma giunto al bosco della Ficuzza, presso Corleone, finse di ritirarsi verso l’interno dell’isola, e i borbonici credettero di aver avuto la meglio; ma in realtà Garibaldi fece marciare in silenzio le sue truppe attraverso i boschi e per sentieri di campagna; ed il 27 maggio, tra lo stupore generale, piombò su Palermo. I pavidi generali borbonici trattarono un armistizio, perché era loro intenzione, condivisa dal re Francesco II, di offrire ai patrioti la Sicilia, pur di mantenere il dominio della parte continentale del regno; ma Garibaldi non accettò e sbaragliò i borbonici con la splendida vittoria di Milazzo, il 20 luglio: sicché essi sgombrarono l’isola, mantenendo il possesso della sola cittadella di Messina.
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Con plebiscito del 21 ottobre 1860, e con la formula “Italia e Vittorio Emanuele”, la Sicilia votò a favore dell’Unità con l’Italia. Il 27 gennaio 1861 37.044 elettori votarono per eleggere i primi 19 Deputati del Regno (non i Senatori, perché allora si accedeva al Senato solo per nomina regia). Primo Presidente del Senato fu nominato il siciliano Ruggero Settimo, patriota per eccellenza del 1848-49. L’unità, però, si rivelò ben presto una delusione per i siciliani. Su di essi, abituati a pagare un’unica imposta progressiva sul reddito, si abbattè una valanga di tasse: la comunale, la provinciale, l’addizionale, il focatico (tassa di famiglia), la tassa sul macinato (che colpiva soprattutto i poveri), e persino la inaspettata tassa di successione; ma quello che i siciliani meno accettarono fu la coscrizione militare obbligatoria (unico motivo per il quale avevano contestato pure Garibaldi), perché la Sicilia era stata tradizionalmente esente dalla leva, ed il servizio militare era solo su base volontaria.
L’imposizione della coscrizione militare causò il fenomeno della renitenza che fu subito classificata come banditismo: e una vera e propria guerra fu scatenata in Sicilia contro inermi popolazioni, accusate in massa di favoreggiamento. Famiglie isolane furono attaccate nelle loro case; interi paesi furono privati dell’acqua potabile, e, solo per citare un esempio delle angherie alle quali venne sottoposto il popolo siciliano, ad un giovane di leva, il sarto Antonio Cappello da Palermo, sordomuto sin dalla nascita, furono inferte ben 154 bruciature con ferri roventi,
perché ritenuto un simulatore dagli ufficiali piemontesi che presiedevano alle operazioni di leva . La foto del corpo martoriato del giovane coscritto fece inorridire l’Europa, mentre il generale piemontese Giuseppe Govone definiva in Senato “barbari” i siciliani; e la Camera dei Deputati respingeva con 206 voti contrari e appena 52 favorevoli, la proposta del deputato siciliano Vito d’Ondes Riggio che il 10 dicembre 1863 chiedeva un’inchiesta parlamentare sull’operato piemontese in Sicilia. Inoltre furono estese alla Sicilia le leggi eversive per la vendita delle proprietà ecclesiastiche. Fu una jattura per l’isola, nella quale i due terzi della proprietà terriera erano in mano a corporazioni religiose, che davano lavoro a tanta gente. La vendita fruttò oltre 600 milioni, che non furono spesi in Sicilia, ma incamerati dallo Stato che potè annunziare trionfalmente per opera del bolognese Marco Minghetti, il pareggio del bilancio, il 16 marzo 1876, evitando però di dire come era stato ottenuto. Le conseguenze furono gravissime: l’acquisto dei terreni da parte della borghesia capitalistica isolana ridusse la disponibilità finanziaria che questa classe avrebbe dovuto destinare alle migliorie fondiarie e allo stesso pagamento dei salari ai braccianti: il che provocò il triste fenomeno dell’emigrazione, specialmente verso gli Stati Uniti e vari paesi europei, con lo svuotamento pressoché totale di interi paesi dell’isola, specie dei comuni agricoli dell’interno. Paradossalmente, le rimesse in valuta pregiata degli emigranti servirono alla nascente industria italiana per l’acquisto delle materie prime.
Commentando la situazione Garibaldi scriveva nel 1868 ad Adelaide Cairoli: «Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate» . Tra l’altro egli aveva promesso nei suoi proclami del 1860 le terre demaniali ai contadini siciliani combattenti con lui per la causa italiana, promessa questa mai mantenuta. La Sicilia nel 1866 protestò con l’ultima rivolta risorgimentale siciliana, quella del “Sette e mezzo”, dal 15 al 22 settembre, che fu domata coi soliti mezzi coercitivi dal generale Raffaele Cadorna.
In Sicilia si cantò tristemente: : «L’oru e largentu squagghiaru ppi l’aria/ di carta la visteru la Sicilia», alludendo al fatto che dalla Sicilia erano state ritirate le monete di metallo pregiato che vennero sostituite dalla carta-moneta.Il peso fiscale salì paurosamente. La Sicilia che con il Sud aveva contribuito alla costituzione del capitale liquido del nuovo Regno con 443 milioni su 668, nella proporzione del 65,7 per cento, si vedeva ingiustamente ricompensata dalla Stato che (secondo i calcoli fatti dall'economista Francesco Saverio Nitti nel 1900, con suo libro Nord e Sud) spendeva 71,5 lire annue per ogni abitante della Liguria e solo 19, 88 lire annue per ogni abitante della Sicilia, mentre su un totale di 110.569.846 lire di debito pubblico, il Piemonte concorreva per 61.615.255 lire e la Sicilia soltanto per 6.800.000 lire. Eppure la contribuzione della Sicilia all'impresa risorgimentale era stata generosa e degna di ben altre ricompense.
fonte:RISORGIMENTO E DONNE DI SICILIA- tesi di dottorato di Aurora Ornella Grimaldi
Superando di molto per capacità naturali tutti quanti gli altri uomini, coltivò con passione sia l'architettura, sia la creazione di statue, sia la lavorazione della pietra. Fu anche l'inventore di molti strumenti utili alla sua arte e costruì opere che suscitavano ammirazione in molte contrade del mondo abitato.Nella creazione delle statue era talmente superiore a tutti quanti gli uomini che le generazioni successive favoleggiarono che le statue da lui create fossero quasi come degli esseri viventi: infatti, esse sembravano che potevano vedere e camminare e, in generale, serbavano l'impostazione del corpo intero, cosicché pareva che l'oggetto da lui creato fosse una creatura vivente. Poiché fu il primo a raffigurare gli occhi e a riprodurre le gambe divaricate nell'atto di camminare, e ancora le mani tese, a ragione era ammirato dagli uomini.Gli artisti vissuti prima di lui creavano le statue con gli occhi chiusi e con le mani aderenti ai lati del corpo. Ora, benché Dedalo fosse ammirato per la sapienza artistica, fuggì dalla patria in quanto riconosciuto colpevole di omicidio per le seguenti cause. Talo ( o Calo o Perdice ), il figlio nato alla sorella di Dedalo, veniva educato presso Dedalo, quando era ancora ragazzo. Ma, essendo più dotato del maestro, inventò il tornio, e quando si imbatté per caso nella mandibola di un serpente, dopo aver segato con questa un piccolo pezzo di legno, imitò la dentellatura dei denti del serpente. Per questo, fabbricata una sega di ferro, e segando con essa il legno che usava nel suo lavoro, pare abbia inventato uno strumento di grande utilità per l'edilizia. Parimenti, inventò anche il compasso e alcuni altri ingegnosi strumenti, e si guadagnò notevole celebrità. Dedalo, invidioso del ragazzo, pensando che costui avrebbe superato di molto in celebrità il maestro, lo assassinò. Sorpreso nell'atto di seppellirlo, gli fu chiesto per chi stesse scavando, ed egli rispose che stava sotterrando un serpente. Accusato e riconosciuto colpevole di omicidio dagli Areopagiti, dapprima fuggì in una contrada dell'Attica, i cui abitanti ricevettero il nome di Dedalidi, in suo onore. Poi, dopo che fu scappato a Creta, dov'era ammirato per la celebrità della sua arte, divenne amico del re Minosse.
Alcuni però raccontano un mito secondo il quale quando Dedalo soggiornava ancora a Creta ed era tenuto nascosto da Pasifae, il re Minosse, che desiderava infliggere una punizione a Dedalo ma non era in grado di trovarlo, fece rintracciare tutte le imbarcazioni presenti sull'isola e promise che avrebbe dato una grande somma di denaro a chi lo avesse rintracciato.
Allora Dedalo, rinunciando alla fuga con un'imbarcazione, costruì con straordinaria ingegnosità delle ali meravigliosamente modellate in cera; dopo che le ebbe messe addosso al corpo di suo figlio e al suo, inaspettatamente volarono via e scapparono sorvolando il mare vicino all'isola di Creta. E Icaro, a causa della sua giovane età, si spinse in volo troppo in alto e cadde in mare, dopo che per il sole si fu fusa la cera che teneva insieme le ali; invece Dedalo volando radente al mare e bagnando costantemente le ali, si mise in salvo in Sicilia.